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Doppia mastectomia per Angelina Jolie


La scelta d'acquisto? Questione di testa!

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Indossare fibre naturali influenza positivamente il cervello umano, lo afferma la recente ricerca “Skin Talk” condotta da COTTON USAnel Regno Unito, che dimostra come i tessuti a contatto sulla pelle influenzano i nostri stati d’animo e le nostre sensazioni, in modo più o meno positivo. 

Lo studio ha analizzato le variazioni delle onde cerebrali dei partecipanti sottoposti ad alcuni stimoli emozionali, ovvero nel momento in cui la loro pelle è stata messa in contatto con una serie di tessuti di uso quotidiano. 

Dal test emerge che la pelle a contatto con fibre naturali restituisce una risposta più positiva, rilassata, attenta e tranquilla nel subconscio dei partecipanti, sia uomini, sia donne.

La ricerca “Skin Talk” condotta da COTTON USA si è avvalsa delle più recenti tecnologie per monitorare le onde cerebrali dei partecipanti: per esaminare come i tessuti a contatto sulla pelle determinino gli stati d’animo, lo studio ha isolato i "ritmi del cervello" dall’attività cerebrale e successivamente li ha registrati tramite 21 elettrodi elettroencefalografici (EEG). In totale, sono stati messi alla prova 14 differenti tessuti per raccogliere informazioni volte a identificare l'andamento del tipo di attività cerebrale evocata da ogni singolo campione di tessuto. Ciò ha permesso agli scienziati di isolare i segnali emotivi e di utilizzarli per creare 14 suoni del tutto unici, composti di fattodall'attività cerebrale dei partecipanti. 

Incaricati da COTTON USA, i ricercatori indipendenti di Mindlab International hanno scoperto che tra tutti i campioni di materiali analizzati, il cotone è quello che ha offerto le migliori risposte, anche rispetto alle altre fibre naturali (tra cui il 100% seta): a fronte di una maggiore qualità e percentuale di cotone nel campione l’attività cerebrale si è rivelata più positiva.

I risultati hanno premiato la fibra di cotone anche in termini di relax e di effetto calmante, eleggendo il cotone il tessuto preferito dalla nostra pelle proprio per l’estrema piacevolezza al tatto delle fibre naturali. 

Le fibre sintetiche e artificiali (compreso acetato, nylon, viscosa e poliestere) sono risultate invece, a livello subconscio, meno popolari tra i partecipanti allo studio, determinando un aumento dei livelli di attività cerebrale, inequivocabile segnale di aumento di stress, antipatia o disarmonia.

Stephanie Thiers-Ratcliffe, International Marketing Manager di CCI ha commentato: “Gli studi dimostrano che il cotone di qualità è la fibra preferita per l'abbigliamento e per la biancheria da letto. Con questa ricerca abbiamo voluto esaminare ed esplorare il nesso di causalità tra tessuto utilizzato e benessere. È stato una sfida affascinante condurre questa ricerca unica, che ha rivelato come il cotone a contatto con la pelle rendaeffettivamente più positivi. Il fatto che i risultati dei test effettuati con il cotone siano così coerenti tra i diversi capi - camiceria, biancheria da letto, denim, spugne da bagno e maglieria – ci dà ulteriore conferma dell’eccezionale versatilità e qualità di questa fibra meravigliosa”.

Le scelte d’acquisto di capi di moda, così come di biancheria per la casa, dipendono quindi dalla “testa” che seleziona le fibre di qualità in virtù del benessere, del comfort e del relax che sono in grado di regalare.

La ricerca “Skin Talk” condotta da COTTON USA rivela che il cervello riceve stimoli positivi quando si indossano fibre naturali e di qualità

Londra, si fa rimuovere la prostata per paura di avere il cancro

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Già lo chiamano "effetto Jolie", dopo che Angelina ha deciso di sottoporsi alla mastectomia preventiva per scongiurare il rischio di cancro al seno. Dagli Stati Uniti all'Inghilterra il passo è stato breve. A Londra, infatti, un 53enne ha deciso di farsi asportare la prostata perché portatore del gene difettoso BRCA2. È il primo uomo al mondo a decidere un gesto tanto estremo, forse sulla scia delloperazione a cui si è sottoposta l'attrice di Tomb Rider.

Secondo la ricostruzione dei fatti del Sunday Times, l'uomo d’affari, che ha una storia familiare di tumori al seno e alla prostata, ha scoperto di essere portatore del gene difettosoperchè gli era stato chiesto di partecipare a una sperimentazione genetica all’Istituto per la ricerca sul cancro di Londra. I geni BRCA1 e BRCA2 sono da tempo collegati a una forma molto aggressiva di cancro al seno. La settimana scorsa Angelina Jolie, risultata positiva al gene BRCA1, ha appunto annunciato di essersi sottoposta a una duplice mastectomia per ridurre la probabilità di ammalarsi di cancro al seno. Una ricerca pubblicata un mese fa ha collegato il gene a una forma rapida e letale di cancro alla prostata.

Il chirurgo Roger Kirby ha spiegato al Sunday Times che la presenza del gene ha giustificato un intervento del genere. Inoltre, alcune indagini sui tessuti prelevati dal paziente avevano individuato alcune mutazioni maligne che in futuro avrebbero potuto generare la malattia. La sorpresa dopo l’operazione: un esame molto approfondito ha rivelato anche la presenza di cellule cancerogene.

Un 53enne londinese decide farsi asportare la prostata. La sorpresa dopo l’operazione: un esame ha rivelato la presenza di cellule cancerogene

La zia di Angelina Jolie stroncata dal cancro: aveva lo stesso gene

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Ancora cancro al seno. La zia materna di Angelina Jolieè morta ieri. Quasi due settimane dopo che la star di Hollywood ha annunciato di essersi sottoposta a una doppia mastectomia dopo aver saputo che aveva una elevata predisposizione ereditaria al tumore, Debbie Martin, sorella minore della madre di Jolie, è morta all’età di 61 anni al Palomar Medical center di Escondido, vicino a San Diego.

Il marito Ron Martin ha raccontato che la moglie aveva lo stesso gene difettoso Brca1 della sorella, Marcheline Bertrand, madre di Angelina, che era morta di tumore al seno nel 2007 all’età di 56 anni. "Se lo avessimo saputo, avremmo fatto esattamente ciò che ha fatto Angelina", ha spiegato ai microfoni della Bbc lo zio apprezzando la scelta presa dalla nipote che nei giorni scorsi si è fatta ritrarre nuda dall'artista svedese Johan Andersson.

La sorella minore della madrea morta all’età di 61 anni: aveva lo stesso gene difettoso Brca1 della sorella

Aumentano i Pericoli dell’Andropausa nell’Uomo

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Maschi attenzione, dopo i 50 anni l’andropausa è in agguato. Ma, a differenza della menopausa femminile, non corrisponde all’incapacità di procreare. L’andropausa  è infatti caratterizzata da un insieme di piccoli e grandi disturbi che si manifestano  in maniera subdola e silenziosa: maggiore  affaticamento  muscolare,  variazione al ribasso dell’attività sessuale e della libido con l’erezione che viene raggiunta più tardivamente e la detumescenza, dopo l’orgasmo, più rapidamente, deficit erettile in altri casi; insicurezza e senso di inadeguatezza fino alla depressione, ripresa più lenta da malattie ed eventi stressanti.

 “II fattore che più di ogni altro influenza negativamente  i livelli dell' ormone - dice  il prof Aldo Franco De Rose, andrologo e urologo della Clinica Urologica di Genova e Presidente dell’Associazione Andrologi Italiani (ASSAI) -  è  il fumo di sigaretta, per cui l’insorgenza dell’ipogonadismo può essere anche più precoce, rispetto ai 50 anni”.  A diminuire però l’età di insorgenza dei disturbi troviamo altri fattori di rischio come l’ipertensione, l’ipercolesterolemia, l’eccessivo consumo di alcool, la dieta inadeguata, la mancanza di esercizio fisico e naturalmente il diabete. “Ma ultimo e più recente allarme, ma non per questo meno importante, è l’assunzione della finasteride contro le calvizie da parte dei giovani” prosegue Aldo Franco De Rose, “E recentemente la FDA ha “costretto”  l’aziende produttrice di questo farmaco a scrivere sul bugiardino l’avvertenza che  i disturbi andrologici (perdita della libido , impotenza) possono persistere anche dopo la sospensione del trattamento farmacologico della finasteride”.  

Di questo e altro si è discusso al Congresso del Nord Italia dell’Associazione Andrologi Italiani, venerdì 24 e sabato 25 maggio a Portofino Vetta.

Dunque, nella realtà,  l’andropausa non è da considerare un “climaterio” in senso stretto come quello femminile ma  può essere etichettata come un insieme di sintomi che interessano tutto l’organismo, ad iniziare dalla  difficoltà di concentrazione, anemia  all’ affaticamento ed è dipendente, quasi sempre, da una diminuita produzione di testosterone . “ Questo ormone, i cui valori sono considerati normali sopra  3,2 ng/ml,  puntualizza il  Aldo Franco De Rose, dopo i cinquanta diminuiscono  dell’1%, ogni anno, con  il risultato che la sua diminuzione interessa circa  il 7% degli uomini fra i 50 e 60 anni. Tale percentuale sale al 20% nei soggetti tra i 60 e gli 80 anni e al 35% in quelli di età superiore agli 80 anni. “Questo calo di androgeni, è conosciuto tecnicamente con  il nome di  Late Onset Hypogonadism (LOH) cioè di ipogonadismo ad insorgenza tardiva”. 

Infine i dati derivanti da studi i su popolazioni nord europee indicano che oltre i 50-60 anni più di un uomo su sei si ammala di osteoporosi, con un’incidenza pari a circa la metà di quella delle donne e sempre a causa di carenza del testosterone. Ma queste cifre aumentano significativamente se si considerano tutti i casi di osteoporosi maschile derivanti da terapie cortisoniche o più frequentemente con antiandrogeni, a cui l’uomo spesso è sottoposto dopo diagnosi di tumore prostatico e che sono spesso ignorate. Dunque testosterone a tutti e sempre? 

Certamente sì, quando sia accertata una reale carenza: la terapia sostituiva è in grado di invertire tutti quei sintomi, che purtroppo, molto spesso vengono confusi con l’invecchiamento. Particolare attenzione però ai casi di sospetto tumore prostatico (PSA elevato) o a coloro in cui la malattia sia stata già diagnosticata. 

Maschi attenzione, dopo i 50 anni l’andropausa è in agguato...

Ricostruito pancreas nel midollo osseo

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Una equipe del San Raffaele di Milano ha ricostruito nel midollo osseo una parte della funzione del pancreas dopo l’asportazione completa dello stesso per malattia. L’intervento è stato condotto per la prima volta al mondo su quattro pazienti e lo studio è stato pubblicato su Diabetes, la più importante rivista di diabetologia.

Il punto di partenza è il trapianto di isole pancreatiche, una procedura che permettere di curare il diabete e che attualmente viene eseguita nelle persone affette da diabete mellito di tipo 1, refrattario alla normale terapia, e da diabete di tipo 3c. Quest’ultimo tipo di diabete colpisce i pazienti a cui viene asportato chirurgicamente il pancreas perché perdono le funzioni espletate dall’organo, di cui la più importante è la regolazione del metabolismo degli zuccheri, che dipende dalla produzione di ormoni come l’insulina e il glucagone. Ildiabete di tipo 3c, che consegue alla chirurgia del pancreas, è difficile da controllare anche con le più avanzate terapie, perché vengono meno tutte le cellule che producono insulina e tutte le altre cellule endocrine e che producono altri ormoni altrettanto importanti per la regolazione dei livelli di zucchero nel sangue.

Modificando la procedura che normalmente viene utilizzata per il trapianto di isole pancreatiche nel paziente diabetico di tipo 1, i ricercatori del San Raffaele hanno recuperato dal pancreas prelevato chirurgicamente le cellule endocrine "ricostruendolo" nel midollo delle ossa dello stesso paziente, a livello del bacino e ottenendo una sorta di "organo puzzle". Il tessuto endocrino, impiantato nel midollo di quattro pazienti, ha attecchito e funzionato - con un periodo di osservazione di quasi 3 anni - dimostrando per la prima volta al mondo che questa procedura è eseguibile, sicura ed efficace.

"L’approccio utilizzato in questi pazienti è innovativo e dimostra per la prima volta che è possibile per un tessuto non ematopoietico, e nella fattispecie endocrino, sopravvivere e funzionare in un ambiente molto particolare come quello del midollo osseo, dove normalmente vivono le cellule staminali del nostro corpo dedicate principalmente alla creazione del sangue. È un risultato straordinario e potrebbe aprire in generale scenari inaspettati nel campo della medicina rigenerativa", ha spiegato Lorenzo Piemonti, responsabile del programma di trapianto di isole e dell’Unità della Biologia delle Beta Cellule al Diabetes Research Institute (DRI) dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. "Normalmente, nella pratica clinica, fino ad oggi il midollo osseo è stato utilizzato per accogliere trapianti di cellule staminali ematopoietiche in pazienti con malattie come la leucemia. È straordinario vedere come in realtà questo ambiente sia in grado di accogliere anche altri tipi di tessuti", ha spiegato Fabio Ciceri, responsabile Unità Ematologia e Programma Trapianto Cellule Staminali.

Una scoperta che apre speranze per i pazienti che devono subire l'esportazione del pancreas

Cancro della prostata, urologi e oncologi italiani secco no alla chirurgia preventiva

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E’ questo l’appello che lanciano gli esperti della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO) durante il il XXIII Congresso Nazionale SIUrO in corso fino a martedì 11 giugno a Firenze presso Palazzo degli Affari. Dopo il clamoroso caso di Angelina Jolie e quello del manager londinese che si è fatto togliere la prostata sana per scongiurare la possibile insorgenza di un tumore, gli uro-oncologi italiani intervengono per evitare anche nel nostro paese il rischio di pericolose e inutili emulazioni.

Esistono due geni il Brca1 ma soprattutto il Brca2 che, se mutati, aumenterebbero il rischio di contrarre malattie tumorali in alcuni organi, tra cui la prostata.

“E’ vero, le ultime ricerche - afferma Giario Conti, Presidente SIUrO - hanno dimostrato che l’alterazione, tramite mancate riparazioni del Dna, del gene Brca 2 nel maschio aumenterebbe il rischio relativo di sviluppare il tumore di 9 volte circa rispetto alla popolazione normale. Tendenzialmente i tumori dovuti ad alterazioni genetiche sono più aggressivi, più veloci e danno più facilmente origine a metastasi. Ma per la prostata, a differenza di quello che accade per il tumore al seno e alle ovaie dove la probabilità è molto alta e dove esistono dei percorsi medici precisi, per il tumore della prostata le conoscenze attuali non sono assolutamente tali da garantire la correlazione tra l’alterazione dei geni e l’insorgenza del tumore.”

Il test genetico va richiesto solo per coloro che hanno, in famiglia, diversi casi di tumore aggressivo della prostrata, ossia quando c’è una forte familiarità e si sospetta la presenza di uno di questi due geni. Pertanto, sotto queste condizioni, l’utilità dello screening genetico di massa perde di significato.

“La presenza di un'anomalia genetica non rappresenta la certezza di sviluppare il tumore della prostata - prosegue Alberto Lapini, Presidente del XXIII Congresso Nazionale SIUrO - e non giustifica in alcun modo una scelta così radicale qual è l’asportazione della prostata.”

Tanto più che, se è vero che se nell’ultimo decennio il carcinoma prostatico è divenuto il tumore più frequente nella popolazione, al contempo continua a diminuirne la mortalità. 

In Italia 1 uomo su 16 di età superiore ai 50 anni è a rischio tumore: oggi sono circa 217 mila gli italiani che convivono con la malattia e il numero di nuovi casi è in continua crescita, con un raddoppio(+ 53%) negli ultimi dieci anni dovuto soprattutto all'aumento dell'età media della popolazione. Ma questo tipo di tumore non è fra i big-killer, e la mortalità è in continua diminuzione: oltre il 70% dei malati sopravvive dopo i 5 anni dalla diagnosi, grazie ad una maggiore prevenzione, a nuove terapie e farmaci di ultima generazione.

“Non bisogna quindi creare allarmismi e farsi prendere dalla paura - conclude Riccardo Valdagni, Incoming Presidente SIUrO – ogni caso va preso in considerazione singolarmente. L’asportazione di una prostata sana è incomprensibile e non condivisibile. L’eccesso di precauzione è dannoso e rischia di esporre a indesiderate conseguenze di operazioni perfettamente evitabili.

DECALOGO SALVA PROSTATA

Uno dei principali fattori di rischio per il tumore della prostata è l'età: le possibilità di ammalarsi prima dei 40 anni sono molto scarse, ma aumentano sensibilmente dopo i 50 anni e circa due tumori su tre vengono diagnosticati in persone con più di 65 anni. Un altro fattore non trascurabile è senza dubbio la familiarità, il rischio di ammalarsi è pari al doppio per chi ha un parente consanguineo con la malattia rispetto a chi non ha nessun caso in famiglia.

Non meno importanti sono i fattori di rischio legati allo stile di vita: dieta ricca di grassi saturi, obesità, mancanza di esercizio fisico sono solo alcune delle caratteristiche e delle abitudini negative che possono favorire l’insorgere del tumore della prostata.

 

SPORT
Utili le lunghe passeggiate e il nuoto

Per avere una prostata sana bisogna combattere la sedentarietà. Chi sta ore seduto (alla scrivania, o alla guida di un mezzo) dovrebbe cercare di fare pause frequenti per fare qualche passo. Le attività fisiche consigliate sono le lunghe passeggiate e il nuoto. Meglio evitare. Attenzione per bicicletta, moto, equitazione, canottaggio. Questi sport sollecitano molto il pavimento pelvico (regione muscolare che sostiene vescica e intestino),
e possono infiammare la prostata.
Il consiglio.

Per evitare le infiammazioni utilizzate equipaggiamenti specifici come, ad esempio, i sellini forati perle biciclette

 

BEVANDE

Importante anche l’idratazione.

Ogni giorno bisognerebbe bere almeno un litro e mezzo d'acqua, riducendo la quota in occasione di viaggi lunghi se si soffre di ipertrofia prostatica.
Meglio evitare. In questo caso, evitate di bere la sera, già da due ore prima di andare a dormire

Bere molta acqua mantiene in salute le vie urinarie e l’intestino, con effetti benefici per la prostata. Il consiglio: Attenzione a birra e alcolici. Un consumo eccessivo può interferire con gli equilibri ormonali e modificare la normale produzione di urina.

 

A TAVOLA
Non esistono cibi miracolosi in gradi sconfiggere il cancro della prostata. Un’alimentazione sana ed equilibrata, però, aiuta sicuramente a ridurre il rischio di sviluppare questa e altre patologie prostatiche. Si raccomanda di limitare i grassi, soprattutto animali, e di mettere in tavola molta frutta e verdura.
Pomodori, peperoni, e in generale ortaggi e frutti di stagione molto colorati apportano vitamine antiossidanti preziosi per l’organismo.
Pomodori freschi, anguria, pompelmo sono ricchi di licopene, sostanza antiossidante che previene le lesioni cellulari indotte dai dei radicali liberi, proteggendo efficacemente la prostata.

Da evitare, invece, il sale, i grassi e gli alcolici – in particolare la birra -: un loro consumo eccessivo, infatti, interferisce con gli equilibri ormonali e altera la diuresi, aumentando il rischio di sviluppare patologie maligne.

Latte e latticini
Sono ricchi di Vitamina D che arresta il ciclo cellulare e contrasta la crescita di nuovi vasi indotta dal tumore.
Tuorlo d'uovo, carne, frumento, riso, legumi: Alimenti ad alto contenuto di Vitamina E che protegge dall'attacco dei radicali liberi e previene i danni alle
membrane delle cellule
Tè verde. Ricco di polifenoli, che svolgono attività inibitoria nei confronti della crescita del tumore
Soia: Come il tè verde è ricca di isoflavonoidi, che possono contrastare i danni sulle cellule e hanno una spiccata attività
antitumorale
Legumi, uovo, lievito di birra. Sono alimenti ricchi di zinco che si accumula proprio nella prostata e ha una spiccata attività antitumorale.

Forte presa di posizione da parte della Società Italiana di Urologia Oncologica riunita a Firenze per il XXIII Congresso Nazionale: no allo screening genetico di massa e alla chirurgia preventiva su organi sani per evitare l’insorgenza di eventuali tumori

L'estate romana dei vip a Mondofitness

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La XIV edizione dell'evento sportivo più importante dell'Estate Romana inaugurata con tanti personaggi e oltre cinquemila presenze. Fino al 6 settembre, sempre nel Parco di Tor di Quinto
L'estate romana dei vip a Mondofitness 1
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L'estate romana dei vip a Mondofitness

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La XIV edizione dell'evento sportivo più importante dell'Estate Romana inaugurata con tanti personaggi e oltre cinquemila presenze. Fino al 6 settembre, sempre nel Parco di Tor di Quinto


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L'estate romana
di vip e sportivi
a Mondofitness

Vacanze lusso formato Heidi e caprette

Weekend da copertina

Staminali, ok primi test per Sla: trapiantate cellule su sei pazienti

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I primi test di trapianto di cellule staminali cerebrali su sei pazienti affetti da sclerosi laterale amniotica (Sla) sono positivi, non hanno cioè effetti avversi. "Siamo soddisfatti ed orgogliosi di aver mantenuto la promessa fatta ai nostri sostenitori, ai malati e alle loro famiglie, di avviare una sperimentazione di terapia cellulare sulla Sla", ha annunciato il professor Angelo Vescovi, coordinatore degli studi, in un convegno a Roma.

La ricerca è stata autorizzata dall’Istituto superiore di sanità e concepita dall’associazione Neurothon. La prima parte della sperimentazione, iniziata il 25 giugno dello scorso anno con il primo trapianto al mondo di cellule staminali cerebrali umane, scevre da qualunque problematica etica e morale, è terminata con successo a fine marzo di quest’anno. Non sono stati rilevati eventi avversi legati alle procedure mediche con risultati migliori della sperimentazione parallela in corso negli Stati Uniti. "Il nostro è uno studio sperimentale condotto secondo i più rigorosi criteri scientifici ed etici - ha continuato il biologo - per una malattia neurologica mortale". La sperimentazione viene svolta secondo la normativa internazionale in accordo alle regole dell’European Medicine Agency e con le cellule prodotte in stretto regime di norme di buona fabbricazione, vale a dire riconosciute dalle commissioni sanitarie nazionali come idonee all’utilizzo di studi clinici, con certificazione dell’Aifa, confermando l’Italia fra i paesi che fanno test di avanguardia nell’ambito delle staminali. Alla luce dei dati preliminari dei primi test, l’Istituto superiore e l’Aifa hanno autorizzato l’avvio della seconda parte della sperimentazione che prevede il trapianto in zone più alte del midollo spinale, cioè nella regione cervicale. "La nostra ricerca - ha sottolineato Vescovi - è sostenuta da un’associazione no profit e il nostro metodo, in opera dal 1999, non è stato brevettato. Grazie al nostro metodo con pochissimi campioni di cellule fetali neuronali prelevate da aborti spontanei è possibile produrre una quantità illimitata di cellule staminali".

Positivi i primi test di trapianto di cellule staminali cerebrali. Vescovi esulta: "Studio sperimentale condotto secondo i più rigorosi criteri scientifici ed etici"

Alcune provette che contengono cellule coltivate in laboratorio

"Stamina non è una cura". La Lorenzin frena Vannoni: "Prima va sperimentato"

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"Stamina non è un metodo di cura". A ribadirlo stavolta è Beatrice Lorenzin ai microfoni di Prima di Tutto.

"Sbaglia chi, in deroga alle norme vigenti a alla sospensione del Tar per quanto riguarda gli ospedali di Brescia continua ad autorizzare pazienti a sottoporsi a delle cure che non sono tali", aggiunge il ministro della Salute, "È un grande errore che crea confusione e illusioni nella fascia di popolazione affetta da malattie rare o incurabili". Davide Vannoni, inventore del metodo Stamina e presidente della fondazione promotrice, presenterà a inizio agosto il protocollo per la sperimentazione al Ministero della Salute. Per il momento, quindi, la Lorenzin ricorda che "ancora non è chiaro per quali malattie potrebbe essere efficace, quindi non è una cura". "Di fronte a vicende come questa che riguardano la sperimentazione di cure per malattie rare con metodologie non ortodosse è evidente che ci possano essere interessi economici in agguato", aggiunge.

Il ministro della Salute ricorda che il protocollo sarà presentato solo a inizio agosto e che al momento non è chiaro se e per quali malattie è efficace

I sei bambini curati con i geni trasportati dal virus dell'Aids

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Ora Jacob può giocare e andare a scuola senza il terrore di ammalarsi per una banale infezione. Può correre per casa come tutti i bimbi di tre anni, senza indossare quell’elmetto che prima lo proteggeva dal rischio di gravi emorragie in caso di caduta. Il suo sguardo curioso e la vivacità dei suoi movimenti sono la testimonianza più bella del successo raggiunto con la nuova terapia genica targata San Raffaele e Telethon per due gravi malattie ereditarie, la leucodistrofia metacromatica e la sindrome di Wiskott-Aldrich.

Da temuto nemico a prezioso alleato: il virus Hiv responsabile dell’Aids può essere disarmato e addomesticato per diventare un perfetto cavallo di Troia, capace di insinuarsi nelle cellule trasportando i geni sani con cui correggere gravi malattie ereditarie. Il risultato, celebrato da una doppia pubblicazione sulla prestigiosa rivista Science e presentato ieri durante un’affollata conferenza stampa, si deve all’intuizione di Luigi Naldini, oggi direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica (Tiget) di Milano. Proprio lui, nel 1996, pensò di disarmare il temutissimo virus Hiv per trasformarlo in un efficiente cavallo di Troia che trasporta i geni sani con cui correggere gravi malattie ereditarie arrivando fino alle cellule dell’inaccessibile sistema nervoso centrale. Dopo anni di esperimenti in laboratorio per valutare sicurezza ed efficacia della terapia genica sulle cellule staminali del sangue, nel 2010 è partita la sperimentazione su sedici giovani pazienti da tutto il mondo, di cui sei affetti da una grave malattia neurodegenerativa, la leucodistrofia metacromatica (la malattia di Sofia al centro del caso Stamina), e dieci colpiti da una rara immunodeficienza, la sindrome di Wiskott-Aldrich. Dopo tre anni, ecco i primi frutti. Jacob (3 anni, americano), Canalp (4 anni, turco) e Samuel (9 anni, di Roma), tutti affetti dalla sindrome di Wiskott-Aldrich, sono potuti quasi rinascere. "La nostra ricerca dimostra che la terapia genica è diventata ormai una valida alternativa al trapianto di cellule da donatore quando questo non sia disponibile - ha spiegato Naldini - ci suggerisce anche il disegno per nuove terapie per malattie più diffuse, in cui le cellule del sangue potrebbero essere "armate" per combattere un’infezione o un tumore".

"Nella sindrome di Wiskott-Aldrich le cellule del sangue sono direttamente colpite dalla malattia e le staminali corrette hanno sostituito le cellule malate, dando luogo a un sistema immunitario funzionante e a piastrine normali. Grazie alla terapia genica i bambini non vanno più incontro a emorragie e infezioni gravi e possono correre, giocare e andare a scuola", ha raccontato Alessandro Aiuti, responsabile dell’unità di Ricerca clinica pediatrica del Tiget, in collegamento con il San Raffaele via Skype dalla casa del piccolo Jacob a Philadelphia. Ottimi risultati sono stati ottenuti anche su Mohammad, ragazzino libanese di soli quattro anni, l'americano Giovanni (3 anni) e l'egiziano Kamal (3 anni), i primi tre pazienti trattati per la leucodistrofia metacromatica: la malattia, aggredita prima della comparsa dei sintomi, è stata arrestata. "Il caso più eclatante è quello di Mohammad, il primo si cui siamo intervenuti", ha spiegato Alessandra Biffi, che ha coordinato questa seconda ricerca. "Ha iniziato la terapia quando aveva solo 16 mesi: dopo la settimana di cura e i due mesi di osservazione in ospedale, è tornato alla sua vita. È sopravvissuto ai due fratelli maggiori, morti per la stessa malattia, e ormai - ha, quindi, concluso la ricercatrice - ha raggiunto in buona salute un’età a cui nessun paziente era potuto arrivare in simili condizioni".

Il virus Hiv può essere disarmato e addomesticato per diventare un cavallo di Troia capace di portare i geni sani con cui correggere gravi malattie ereditarie

Il modello del virus dell'Hiv, responsabile dell'Aids

Terapia genica col virus Hiv

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Il virus Hiv può essere disarmato e addomesticato per diventare un cavallo di Troia capace di portare i geni sani con cui correggere gravi malattie ereditarie

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Il virus Hiv può essere disarmato e addomesticato per diventare un cavallo di Troia capace di portare i geni sani con cui correggere gravi malattie ereditarie - a cura di Ansa



Allarme dei medici sulla rinite allergica: in Italia ne soffrono 15 bimbi su 100

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C'è un incubo condiviso da 400 milioni di persone. Si chiama rinite allergica e non concede tregua a chi è costretto a conviverci. Nel mondo un esercito di persone starnutiscono per colpa del polline, della polvere, delle graminacee o della parietaria mentre altrettante sono torturate dalle dermatiti da contatto. Purtroppo tra i più colpiti ci sono i bambini, 15 su 100 in Italia, anche se molto spesso nei giovanissimi non si arriva a riconoscere la malattia immediatamente o ad avere una diagnosi.
I dati sono stati diffusi nel corso del convegno sulla rinite allergica nell'infanzia, promosso dall'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, al quale ha partecipato anche uno dei massimi esperti mondiali di allergie, Ruby Pawankar. Ma dai risultati della somministrazione di alcuni questionari chiamati Isaac (International Study of Asthma and Allergies in Childhood) in diversi Paesi del mondo, risulta che questa patologia è tutto meno che banale, perché peggiora la qualità della vita di chi ne è colpito e favorisce l'insorgere dell'asma, diffusa soprattutto tra i più piccoli. Viceversa, il trattamento della rinite, specie con l'immunoterapia specifica, diminuisce le spese (sia in termini di salute che economici) per la cura dell'asma.
Nell'ultimo anno la percentuale di bimbi con rinite allergica oscillava tra il 5 ed il 22,6 per cento, mentre l'incidenza cumulativa arrivava a superare il 35. E si può fare anche una classifica dei luoghi dove è maggiormente presente. La maglia nera tra i Paesi considerati nell'indagine, spetta per Hongkong (22,6 per cento), ma anche l'Italia si trova in una posizione di rilievo in classifica, con 15 giovanissimi su 100 che ne soffrono. Proprio per questo è fondamentale la prevenzione, evitare il fumo di seconda mano e mantenere, per chi vive con un allergico, un ambiente il più possibile libero da acari della polvere. Tra i consigli per i piccoli quello di evitare decongestionanti nasali e di vaccinare i bambini allergici il prima possibile con terapie iposensibilizzanti specifiche.
«Nonostante la rilevanza del dato a livello internazionale che imporrebbe di inserire la rinite allergica nell'elenco delle malattie non infettive stilato dall'Onu - spiega Alessandro Fiocchi, responsabile dell'Unità di Allergologia del Bambin Gesù -. Lo scopo è aumentare la ricerca finalizzata alla prevenzione e incentivare l'attuazione delle linee guida. Oggi questa forma di allergia resta una delle più sottodiagnosticate dell'infanzia, anche perché uno dei sintomi più comuni, il naso chiuso, viene associato alla costituzione stessa dei bambini». «Invece i genitori devono fare attenzione - continua l'esperto - soprattutto in presenza di cinque particolari spie: occhiaie, alito cattivo, prurito e sangue dal naso, oltre che frequenti starnuti. In questi casi la prima cosa da fare è rivolgersi al pediatra, che stabilirà se è bene fare i test allergici».

La rinite allergica non concede tregua a chi è costretto a conviverci. Nel mondo un esercito di persone starnutiscono per colpa  del polline, della polvere, delle graminacee o della parietaria mentre altrettante sono  torturate dalle dermatiti da contatto

Il cagnolino fa yoga col padrone

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Che gli animali e i cani in particolare siano animali molto intelligenti è risaputo, ma che addirittura siano capaci di seguire una lezione di yoga nessuno l'avrebbe mai immaginato

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Che gli animali e i cani in particolare siano animali molto intelligenti è risaputo, ma che addirittura siano capaci di seguire una lezione di yoga nessuno l'avrebbe mai immaginato - a cura di Bobomatto



Ecco come punge la zanzara

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Il Pasteur Institute di Parigi ha filmato "la bocca" di una Anopheles Gambiae al microscopio mentre morde un topolino da laboratorio

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Il Pasteur Institute di Parigi ha filmato "la bocca" di una Anopheles Gambiae al microscopio mentre morde un topolino da laboratorio - a cura di Bobomatto



Sesso non protetto tra giovani: cresce l'allarme per malattie

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Cresce l'allarme per la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili tra i giovani sotto i 25 anni: sono cresciute del 50% in dieci anni, secondo un report inglese, condotto dal ministero della Salute.

Il dato più preoccupante riguarda la gonorrea, aumentata di un quinto solo negli ultimi dodici mesi. Nel 2012 in Gran Bretagna si sono registrati 448.422 nuovi casi di infezioni trasmesse sessualmente, tra cui clamidia, herpes e condilomi genitali. Il totale è in crescita del 5% rispetto all’anno precedente e del 46% rispetto al 2003. Dati simili, anche se con proporzioni diverse per le singole malattie, si registrano in Italia, come spiega l'andrologo Carlo Foresta: "I giovani stanno perdendo il senso della protezione dalle malattie sessuali, anche a causa della fine della grande paura dell’Aids", spiega, "I nostri dati, tramite il progetto Androlife, ci dicono che oltre il 50% dei giovani tra i 16 e i 25 anni fa sesso, anche in rapporti occasionali, senza alcuna precauzione".

In Italia si registrano molti meno casi di clamidia, ma preoccupa la diffusione del papillomavirus. "Ben il 20% dei giovani maschi italiani che hanno rapporti sessuali non protetti ha già il papillomavirus nel liquido seminale, e impiega un anno e mezzo in media a eliminarlo", sottolienea Foresta, "Il che vuol dire che per un anno e mezzo questi ragazzi sono contagiosi". Poi c’è il boom di infezioni del cavo orale, e quello più allarmante dei tumori della bocca, dovuti a rapporti orali con persone colpite dal virus: "Una ricerca che stiamo per pubblicare conferma proprio la relazione stretta tra rapporti orali in coppie in cui uno dei due è positivo al virus HPV e l’incremento di contagio nel cavo orale e di tumori". Per questo serve più informazione: "I giovani devono capire che anche se l’Aids viene ormai cronicizzata dai farmaci è ancora un rischio reale, e poi ci sono tutte queste malattie, alcune delle quali credevamo debellate come la sifilide, che sono in aumento e che sono molto pericolose. Eppure non ci vuole molto: basta fare sesso protetto".

In dieci anni sono cresciute del 50% le malattie sessualmente trasmissibili. L'esperto: "Serve più informazione"

Tumore al seno: basta chemio inutili

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Per evitare chemio novità nelle strategie terapeutiche e due nuovi test per la lotta contro il cancro al seno arrivano dal V Simposio Internazionale“Primary Systemic Treatment of Operable Breast Cancer” che si è tenuto dal 5 al 7 ottobre a Cremona presso Palazzo Trecchi.Il congresso, organizzato da Azienda Istituti Ospitalieri di Cremona, Unità di Patologia Mammaria Breast Cancer Center e dall’Università degli Studi di Brescia ha visto, per la prima volta in Italia, la partecipazione di ASCO (American Society of Clinacal Oncology), la più grande società di oncologia al mondo, che interviene come partner dell’evento. Tra le evidenze emerse dal congresso, la messa a punto di nuovi metodi diagnostici nella cura del cancro al seno e l’introduzione di nuovi farmaci nella chemioterapia preoperatoria. Di fronte ad una platea di più di 200 oncologi provenienti da tutto il mondo, gli esperti hanno presentato in anteprima mondiale due test rivoluzionari che consentono di prevedere con maggiore precisione l’evoluzione della malattia, permettendo di capire già in fase di diagnosi o durante il trattamento la validità della cura senza attendere l’intervento, con l’obiettivo di fornire al paziente il più efficace trattamento terapeutico. “Attraverso questi nuovi test, commenta - Alberto Bottini, Responsabile Patologia Mammaria Breast Cancer Center - Azienda Istituti Ospitalieri di Cremona - è possibile condurre un’analisi sulla mutazione di geni specifici e individuare in fase di diagnosi, con il test su piattaforma Sequenom, il trattamento più indicato per il paziente oltreché valutare in corso di terapia, con il test RDA Index, se il paziente sta traendo un reale beneficio dalle cure somministrate”.Il carattere rivoluzionario di questi test consiste nel fatto che fino ad oggi l’efficacia del trattamento può essere valutata esclusivamente “ex-post”, ovvero dopo l’intervento. Ora invece sarà possibile durante il trattamento o addirittura in fase di diagnosi chi trarrà beneficio da una determinata cura, modificando o interrompendo la terapia in casi in cui non si stiano ottenendo miglioramenti significativi, ed evitando la tossicità derivante da cure inefficaci.  “Negli ultimi decenni il trattamento chirurgico di questa patologia è divenuto sempre più conservativo favorendo interventi meno invasivi a operazioni mutilanti. “In tal senso la chemioterapia preoperatoria o neoadiuvante - afferma Alfredo Berruti, Direttore Oncologia Medica Ospedali Azienda Ospedaliera Spedali Civil di Brescia. Università degli Studi di Brescia - sta prendendo sempre più piede, dal momento che presenta numerosi vantaggi rispetto al classico trattamento adiuvante/post operatorio”. Anticipare il trattamento chemioterapico permette di controllare meglio la risposta del paziente. La terapia preoperatoria consente di ridurre il volume della massa tumorale rendendo l'intervento più efficace, meno demolitivo, e aumentando le possibilità di conservare la mammella. Infine riduce l'estensione di tumori inoperabili, permettendo interventi curativi. “Si tratta - ha sottolineato Clifford A. Hudis, Presidente ASCO, American Society of Clinacal Oncology - di una scoperta importantissima nel campo della lotta al tumore del seno, che migliorerà l’indice di sopravvivenza alla patologia, consentendo di definire terapie sempre più personalizzate sul singolo paziente con indubbi benefici in termini economici e una significativa diminuzione della tossicità dei trattamenti e dei tempi di guarigione.” Per le donne di età superiore ai 35 anni il tumore al seno è ancora la prima causa di morte: una patologia che nel mondo registra 1 milione di nuovi casi l’anno, 42 mila dei quali in Italia. Oggi nel nostro paese 1 donna su 13 è a rischio tumore: con il 41% dei casi diagnosticati nella fascia d’età compresa tra 0-49 anni, il 35% tra i 50 e i 69 anni e il 21% oltri i 70 anni. Tuttavia la mortalità è in continua diminuzione. Un numero crescente di pazienti arriva alla guarigione e l’aspettativa di vita è in costante aumento: oltre l’85 dei malati sopravvive dopo i 5 anni dalla diagnosi, grazie alla diagnosi precoce e a terapie sempre più mirate ed efficaci.  Sono in corso esperienze di chemioterapia neoadiuvante che prevedono, oltre all’utilizzo dei farmaci convenzionali, anche l’impiego di nuove molecole nel trattamento delle forme più aggressive di tumore al seno, quali il tipo HER2 positivo che rappresenta il 20-30% di tutte le diagnosi di carcinoma mammario. Una forma molto aggressiva, con una progressione più rapida e un’età d’insorgenza sempre più bassa. Le nuove sostanze, come ad esempio l'Ertumaxomab e il Neratinib, bloccano l'HER2 stesso o le molecole che interagiscono con esso. Con risultati promettenti: blocco irreversibile della proliferazione del tumore. Oggi, grazie alla chemioterapia preoperatoria l’80% delle pazienti ottiene una riduzione delle dimensioni tumorali e può essere sottoposta a interventi molto meno demolitivi con esiti psicologici, funzionali, estetici meno invalidanti per le pazienti.  

Nuove strategie terapeutiche e due nuovi test per la lotta contro il tumore al seno dal V Simposio Internazionale “Primary Systemic Treatment of Operable Breast Cancer” con la straordinaria partecipazione come partner, per la prima volta in Italia, di ASCO (American Society of Clinacal Oncology)

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