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La termoterapia contro incontinenza e problemi intimi

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Michele Vanossi

Non ne parlano per imbarazzo oppure perché si vergognano, ma sono oltre 2 milioni le donne che in Italia soffrono di incontinenza urinaria e di problemi all'apparato genitale. Le cause sono di diverso tipo e non dipendono unicamente dall'avanzare dell'età ma anche dalla menopausa, dall'aumento del perso, dalle gravidanze o da patologie particolari. «Spesso i rimedi tradizionali quali esercizi fisici, cure farmacologiche o chirurgiche sono impegnativi, rischiosi e a volte non risolutivi», spiega la dottoressa Katharina Sirch (www.medicina-estetica.online). Un metodo specifico efficace, non invasivo, non chirurgico e indolore per fare fronte a incontinenza, atrofia, secchezza, lassità postpartum si chiama ThermiVa: nato negli Usa, utilizza la termoterapia a temperatura controllata tramite radiofrequenza.

È un trattamento pensato per tutte le donne che vogliono ritrovare il loro benessere intimo senza ricorrere a interventi chirurgici. ThermiVa utilizza energia a radiofrequenza per riscaldare i tessuti a una temperatura controllata tramite una sonda. Il calore stimola la produzione di collagene mentre rassoda i tessuti e compatta le aree da trattare.

È proprio il costante controllo della temperatura a garantire il rispetto del protocollo terapeutico proposto, evitando ogni disturbo per la paziente. Il trattamento non richiede alcun anestetico, ma soltanto un gel ecografico.

Dopo la seduta si possono riprendere le normali attività svolte». I costi si aggirano sui 900 euro a seduta (di solito 3), la cui durata è di 20-40 minuti.


Il metodo Zamboni delude le aspettative Ecco le sperimentazioni più promettenti

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Il presidente Battaglia: «Un'agenda di priorità per sostenere i malati»

Rosetta Bianchi

Mario Alberto Battaglia è presidente della Fondazione italiana Sclerosi multipla (Fism) e volontario in Aism da 43 anni. Aism è un'associazione di malati nata nel 1968 che, dal 1998, affianca la Fism per promuovere e finanziare la ricerca scientifica. «Abbiamo formalizzato la carta dei diritti dei malati e definito l'agenda con obbiettivi entro il 2020 - spiega Battaglia - In sostanza, abbiamo stabilito le priorità da affrontare». L'agenda è stata definita con i vari attori, dai familiari ai centri clinici, dagli operatori alle aziende. Contiene dieci linee di intervento prioritarie che dovranno tradursi in impegni concreti per chi è affetto da sclerosi multipla. In primo luogo va stabilita la «presa in carico» del malato, «entro il 2020 ogni Regione dovrà adottare il percorso diagnostico assistenziale (PDTA) oggi presente in 7 regioni, in altre 6 in via di definizione - chiarisce il presidente - Poi è importante che i vari centri siano in rete; che siano definiti l'accesso ai farmaci, il diritto alla riabilitazione, le valutazioni dell'invalidità da parte delle commissioni Asl, l'inserimento e il mantenimento del posto di lavoro».

Insomma, c'è ancora tanto da fare. L'incidenza della sclerosi multipla è in aumento. Insieme alle malattie del sistema immunitario e al cancro «è considerato un male del secolo». Ogni anno si registrano 3.400 nuovi casi. Aism, attraverso l'ente di ricerca Fism, finanzia anche progetti di ricerca. «Mettiamo a disposizione sei milioni all'anno scegliendo i progetti di ricerca tramite bando - aggiunge Battaglia - in più sosteniamo i progetti speciali. Tra questi il progetto internazionale sulle forme progressive ad oggi orfane di terapia». Ci sono progetti promettenti? «Sicuramente quelli con le staminali mesenchimali, vi è una sperimentazione al quinto anno sull'uomo, 180 pazienti in tutto il mondo. I trapianti di midollo si sono rivelati utili nei casi gravi ma non vi sono studi; ed è invece agli inizi una sperimentazione con le staminali neurali». In Italia è stato approvato un generico (ibrido) del Copaxone per il trattamento della Sclerosi multipla, come hanno reagito i malati? «Non abbiamo ancora dati su questo. Ma ci sono due priorità da tener presente. Ogni terapia è decisa in scienza e coscienza dal medico in accordo con il paziente. E poi non si può interrompere una continuità terapeutica. Le logiche di risparmio esistono ma deve prevalere il fine».

Invece sono risultate inferiori alle aspettative le conclusioni della sperimentazione del metodo Zamboni. Il chirurgo Paolo Zamboni, direttore del centro Malattie vascolari dell'università di Ferrara, aveva ipotizzato che un'angioplastica al collo avrebbe potuto ridurre la disabilità nei malati. Il presupposto era che nei malati di sclerosi multipla un'insufficienza venosa fosse responsabile dei danni cerebrali. L'intuizione da parte del chirurgo risale al 2008 ed è di questi giorni la pubblicazione del suo lavoro conclusivo su Jama Neurology. Sul sito di Aism (www.aism.it), nella sezione «Informazione scientifica» vi sono i dettagli delle sperimentazioni in corso e degli studi su Zamboni.

Per la sclerosi multipla terapia in gravidanza

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Dati ventennali e uno studio multicentrico confermano: la cura non danneggia il feto

Agata Beltrami

Più di duemila donne malate di sclerosi multipla hanno potuto curarsi durante la gravidanza, non avere recrudescenza di malattia al termine della gestazione e diventare mamme di bimbi sani. Le donne facevano parte di uno studio multicentrico e i loro figli sono stati seguiti per più di due anni. I risultati di questa ricerca - oltre ai dati di farmacovigilanza raccolti in un ventennio nei centri di cura in Germania, Danimarca e Italia - hanno permesso a uno dei farmaci immunomodulanti, il Copaxone prodotto dalla Teva Pharmaceutical Industries, di non avere più la controindicazione in gravidanza.

«Tutti i farmaci per la sclerosi multipla, all'incirca una quindicina, sono preclusi alle gestanti, solo il Copaxone è diventato accessibile con autorizzazione della FDA spiega Francesco Patti, responsabile del Centro Sclerosi Multipla del Policlinico «G. Rodolico» del Policlinico Vittorio Emanuele di Catania Si tratta di una tappa fondamentale per vari aspetti. Il più importante è legato alla qualità della vita. Le donne sono più colpite dalla sclerosi multipla e la diagnosi avviene, in genere, in età fertile. Il fatto di poter tenere sotto controllo la malattia è fondamentale anche nella decisione di avere un figlio. La comunità scientifica ha poi valutato di assegnare il Copaxone come farmaco sostitutivo in gravidanza. Significa che le pazienti seguite con altri trattamenti (ogni caso e ogni stadiazione richiedono terapie mirate) possono beneficiare di questa molecola che non si è rivelata tossica durante il periodo di gestazione».

Prima di questa autorizzazione cosa accadeva?

«Si sospendevano le cure per tutti i nove mesi pur sapendo che nella maggior parte dei casi ci sarebbe stata una ripresa di malattia dopo il parto».

Si può convivere con la sclerosi multipla con una qualità della vita accettabile?

«Ogni caso è a sé. Vi sono forme già aggressive in partenza, altre meno e il decorso è sempre imprevedibile. Ci sono pazienti che accusano solo stanchezza e cali della vista, altri che si ritrovano in poco tempo sulla carrozzella. Possiamo dire che nel 50-60% dei casi si mantiene la qualità della vita. Per noi clinici avere a disposizione 15 farmaci significa personalizzare e bilanciare benefici e sicurezza».

Quali sono le cause della malattia?

«Non si conoscono con certezza. Non si è scoperto un gene responsabile. Si tratta di una malattia autoimmune, il sistema immunitario attacca componenti del sistema nervoso centrale. Si è visto che il fumo ne peggiora le condizioni e l'attività fisica, quando è possibile, ne rallenta il decorso. Vi sono benefici anche stimolando l'attività cognitiva del paziente. Quanto alla prevenzione è importante non abusare di antibiotici per non alterare il sistema immunitario e sicuramente astenersi dal fumo».

È vero che in Italia è stato autorizzato un farmaco ibrido al posto del Copaxone?

«Sì. L'ibrido non è un generico ma un farmaco diverso dall'originale. Alcune Regioni lo hanno adottato per contenere le spese. Accade solo in Italia fra i Paesi europei l'eventualità che un farmacista assegni l'ibrido al posto del Copaxone, ma mai a terapia già iniziata. Non ci sono studi su questa nuova molecola in gravidanza».

Quindi che studio è stato fatto?

«In Usa è stato condotto uno studio con Risonanza magnetica per verificare il numero di lesioni. Al termine dei nove mesi è emerso che non vi sono differenze tra Copaxone e ibrido. Quel che lascia perplessi è che in nove mesi non sia stato notato nessun effetto clinico, cioè il numero di ricadute. È la prima volta che uno studio sul Copaxone non osservi un effetto clinico».

Addio tagli Il mal di schiena si cura dall'ombelico

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Una nuova tecnica all'istituto ortopedico Galeazzi di Milano Il professor Bassani: «Nessuna lesione e si va a casa dopo 2-3 giorni»

Maria Sorbi

A volte è un dolore sordo ai lombi, altre è una morsa acuta e improvvisa. Assomiglia a una scossa elettrica in mezzo alle scapole o si manifesta come un fastidio latente ma continuo. Nelle sue mille varianti, il mal di schiena è il male più popolare, soprattutto dai 40 anni in su. Nella maggior parte dei casi si tratta con anti infiammatori, fisioterapie e manipolazioni manuali. Ma volte porta in sala operatoria, ad esempio se è necessario un intervento all'ernia o l'inserimento di una protesi. Ora l'operazione alla schiena non è più invasiva come è stata fino ad oggi. A mettere in pratica la nuova tecnica contro il mal di schiena ribelle è Roberto Bassani, direttore di Chirurgia vertebrale 2 all'istituto ortopedico Galeazzi di Milano.

LO SLALOM TRA ORGANI

Bassani non effettua tagli, non lede tessuti né muscoli. Ma per arrivare a intervenire sui dischi lesionati della colonna vertebrale pratica solo una mini incisione all'altezza dell'ombelico, circa 2,5 centimetri. Da lì raggiunge la schiena con un mini endoscopio, dotato di telecamera, collegato a un monitor e lo guida lungo 20 centimetri di slalom tra organi e membrane per raggiungere il punto esatto dove riparare la lesione. «In questo modo - spiega il chirurgo, che ha appena pubblicato i risultati del suo intervento su un importante manuale di chirurgia vertebrale edito a New York - non creiamo lesioni ai tessuti e il recupero del paziente è molto più veloce. Nella norma sono sufficienti due o tre giorni di degenza. Con l'intervento tradizionale invece, quello che incide la schiena, nel 12% dei casi i pazienti risolvono il problema principale ma accusano un dolore, lieve ma perenne, alla schiena». In sostanza la tecnica ribalta le regole della chirurgia mini invasiva della colonna vertebrale e riduce anche i costi della sanità. Bassani sta insegnando come operare anche ai colleghi americani che periodicamente, da un anno a questa parte, stanno seguendo stage mirati al Galeazzi.

SFUMATURE DI LOMBALGIA

Il mal di schiena racchiude in sé un rischio: quello di perdersi in un meandro di esami e rimedi inutili per capire da cosa dipenda. Nel caso della lombalgia, ad esempio, soltanto nel 20% dei casi c'è un problema specifico evidente: il restante 80% è provocato da postura sbagliata, stress, sovrappeso, cattiva forma fisica. Se si analizza la colonna per segmenti, il dolore al centro delle scapole nella parte superiore è dovuto, il più delle volte, a rigidità o contrattura muscolare. Se un dolore si irradia tra gli arti, sia superiori sia inferiori, è bene indagare la possibile presenza di uno schiacciamento di una radice nervosa o di una possibile frattura delle vertebre. Ancora, il dolore centrale localizzato sulla colonna può essere dovuto a un problema ai dischi, a un danno ai legamenti o a contratture muscolari. Capire se il motivo del dolore è muscolare o scheletrico non è difficile se si sa a chi rivolgersi e che esame fare. Quando bisogna preoccuparsi? «Quando il dolore dura per più giorni - spiega Bassani - e non si attenua con un cambio di posizione, allora vanno fatti degli accertamenti. Il primo passo non è la risonanza magnetica, utile ma costosa, ma prima di tutto una visita dallo specialista: ortopedico, fisiatra, meglio se specializzato nelle patologie della colonna vertebrale. Se non è evidente una causa neurologica di compressione e se il dolore non passa nell'arco di una settimana con gli antinfiammatori e i miorilassanti, allora occorre una radiografia. Solo se questa non aiuta a risalire alla causa del dolore sono necessarie una tac o una risonanza magnetica».

QUANTI ERRORI

Gli errori che commettiamo per combattere il mal di schiena non riguardano solo le posture sbagliate ma anche il modo in cui ci curiamo: «Per la lombalgia cronica - spiega Bassani - è ormai dimostrato che restare fermi a letto è inutile e peggiora la situazione. Stare a riposo non significa stare immobili. Senza senso anche ricorrere a cocktail di sali minerali come potassio e magnesio: non esiste alcuna evidenza scientifica che abbiamo effetto. Lo stesso dicasi per gel e pomate di arnica o piante come l'artiglio del diavolo che sono sì degli antinfiammatori ma non è dimostrato che funzionino per via dermica». Sbagliamo parecchie cose anche nel nostro stile di vita: fumare fa male anche alla schiena e non favorisce di sicuro l'ossigenazione del sangue. Fondamentale fare sport, meglio se aerobico. Ma attenzione a salti e colpi.

Uomini allergici a proprio sperma: ecco la sindrome post orgasmo

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Alcuni uomini sono "allergici" al proprio sperma. I sintomi: Stanchezza, febbre, congestione nasale, irritabilità, disturbi dell'umore e difficoltà di concentrazione

<p>Stanchezza, febbre, congestione nasale, irritabilità, disturbi dell&#39;umore, difficoltà di concentrazione, perdita di memoria, prurito agli occhi, dolori muscolari e debolezza, sudore e difficoltà a parlare. Sono solo alcuni dei sintomi di quella che viene chiamata &quot;sindrome da malattia <strong>post-orgasmica</strong>&quot;, ovvero una condizione di disagio e malattia che l&#39;uomo prova dopo aver fatto sesso o, in generale, dopo aver eiaculato. Il motivo? L&#39;allergia al proprio sperma.</p><p>Non sono tanti i casi registrati fino ad oggi, <a href="https://scienze.fanpage.it/uomini-allergici-al-proprio-sperma-cos-e-la-m... target="_blank">fanpage </a>parla di qualcosa come 50 casi accertati dal 2002 ad oggi. Ma è probabile, vista la riconosciuta difficoltà degli uomini a sottoporsi a controlli medici, che il dato possa essere più elevato. Alcuni <strong>uomini</strong>, infatti, dopo l&#39;orgasmo soffrono una condizioni non positiva che può durare qualche secondo, alcuni minuti ma anche - nei casi più gravi - addirittura 7 giorni. </p><p>Secondo gli approfonditi studi sul caso, uno dei sintomi della sindrome da malattia post-orgasmica (pois) ci sarebbe anche l&#39;eiaculazione precoce. Ma il motivo scatenante sarebbe una sorta di allergia che l&#39;uomo sviluppa nei confronti del proprio <strong>sperma</strong>. Non si sa però ancora quale sia la sostanza eventualmente allergenica. Come scrive Fanpage, &quot;studi pubblicati hanno comunque dimostrato che, effettivamente, i pazienti &lsquo;allergici&#39;, durante i test di reazione cutanea al proprio sperma, mostravano i sintomi sopra elencati, cosa che non accadeva con quelli del gruppo di controllo placebo (a cui i test di reazione cutanea venivano fatti con un fluido che sembrava sperma, ma che non lo era)&quot;. E le cure? Per ora non ci sono. Ad alcuni, però, sono state somministrate piccole quantità di sperma, come se fosse un vaccino, esponendoli così a una dose progressiva di sperma in odo da ridurre la risposta immunitaria. </p><p> </p>

Veneto, negli ospedali sono finite le scorte di antitetanica

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"Qui ci siamo sentite rispondere che il vaccino non era disponibile. Dovevano farlo arrivare dall'estero: abbiamo atteso 10 giorni"

In tutto il Veneto il vaccino antitetanico è finito. La direzione dell'Usl 2, ha confermato a l'esaurimento delle scorte, ma ha assicurato che le emergenze vengono trattate con un vaccino bi-valente che copre sia il tetano che la difterite.

La scorsa settimana una ragazza di Sernaglia della Battaglia si è vista rifiutare il vaccino dall'ospedale di Conegliano. La giovane era stata portata al Pronto soccorso dopo essersi bucata inavvertitamente il piede con un ago arruginito mentre tagliava la legna. La ragazza è stata subito medicata, ma non le è stata somministrata la vaccinazione antitetanica.

"Deve andare a comprarlo in farmacia", ha risposto la struttura pubblica alla giovane. "Qui - ha spiegato la sorella della ragazza a il Gazzettino - ci siamo sentite rispondere che il vaccino non era disponibile. Dovevano farlo arrivare dall'estero: abbiamo atteso 10 giorni".

La prevenzione

Al Pronto soccorso la situazione è critica, così come per deve fare la prevenzione. Coloro che hanno fatto la prima dose dell'antitetanica in primavera, e ora deve fare il cosiddetto richiamo, dovrà segliere se non farsi vaccinare o se fare tetano e difterite insieme.

Per evitare funghi e batteri nel letto ​cambiare le lenzuola ogni settimana

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Philip Tierno, microbiologo dell'Università di New York, ha illustrato il giusto timing per cambiare le lenzuola. Il motivo? Evitare che il letto diventi colonia per batteri

Il nostro amato letto, se non curato, può diventare terreno di coltura di funghi e batteri. Come evitarlo? Il trucco passa tutto dal ricambio delle lenzuola. E fate attenzione: se non lo facciamo corriamo il rischio di ammalarsi.

Lo studio scientifico

A dirlo non è qualche venditore di lenzuola che pensa di arricchirsi con una bufala, bensì è PhilipTierno, microbiologo dell'Università di NewYork. Una teoria particolare? Per niente. Facendo due conti infatti notiamo che nel letto trascorriamo un terzo della nostra vita e dividere questo spazio e tutto questo tempo con colonie di batteri nascosti nelle lenzuola non è il massimo del benessere. +

Inoltre, come scrive Focus, in un anno, l'essere umano produce una media di 26 litri di sudore, dettaglio che favorisce il proliferarare di funghi. E infatti una ricerca ha rivelato che in un cuscino, dopo un anno di vita e di utilizzo, si possono trovare circa 17 tipi di funghi.

PSORIASI Perché non è solo questione di pelle

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Uno studio dimostra che il 60% dei malati soffre di depressione. Un aiuto da farmaci immunoterapici e da screening genetici

Marco Palma

I primi cenni storici risalgono ai codici Assiri che parlano di malattie cutanee squamose e crostose. La Bibbia nel Levitico parla di chiazze di pelle polverose, Ippocrate scrive di malattia della pelle a chiazze ed usa la parola spora. Perché psoriasi è parola che deriva dal greco e vuol dire condizione di prurito. In tutti questi casi, e negli altri dove si parla anche delle possibili cure, i malati vengono descritti come persone solitarie, tristi. Il loro status non sembra essere molto cambiato secondo l'ultimo rapporto denominato «World Psoriasis Happiness Report 2017», una delle più grandi ricerche mai condotte a livello mondiale sull'impatto psicologico che può avere questa malattia per chi ne è colpito. Uno studio che ha arruolato oltre 120mila malati psoriasici che vivono in 184 Paesi del mondo, ad opera Happiness Research Institute di Copenhagen.

L'identikit del malato che ne emerge è quello di una persona stressata e non felice, con una profonda sensazione di disagio riguardo ai molti aspetti della vita quotidiana, in particolare lavorativa, affettiva, intima e di relazione. Dove la figura del medico in alcuni momenti è importante ma dove emerge anche una scarsa fiducia nelle strutture sanitarie per la diagnosi e la cura della malattia. Lo studio si è posto l'obiettivo di fornire proprio alle strutture pubbliche un quadro generale di aspettative dei pazienti ascoltati, così da poter individuare tutte le possibili strategie per migliorare la qualità della loro vita.

In Italia la vita dei malati non è semplice soprattutto per due problemi. Quello di un Paese a macchia di leopardo, dove assistenza, diagnosi precoce e cura della psoriasi non sono uguali in tutte le regioni e quello, che ne è la conseguenza, della migrazione tra una regione e l'altra nei momenti critici della malattia. «In questi ultimi anni sono stati compiuti notevoli passi in avanti nella conoscenza e nel trattamento della psoriasi - dice la professoressa Ornella De Pità, Direttore Struttura Complessa di patologia Clinica Ospedale Cristo re di Roma ma questa ricerca ci conferma come siano ancora molti i bisogni non soddisfatti, soprattutto legati al disagio e all'imbarazzo in ambiente lavorativo, in famiglia e nella vita intima. Prurito, desquamazione cutanea, arrossamento della pelle sono sintomi importanti, molto fastidiosi, a cui a volte si associa un grado di invalidità nei movimenti che non semplifica certo la vita dei malati».

DIAGNOSI RITARDATE

I dati italiani dello studio mostrano una prevalenza di disagio nel malato quando il sintomo colpisce soprattutto il cuoio capelluto e la zona genitale. Si parla anche di depressione (il 60% di chi è affetto da psoriasi ne soffre) più o meno accentuata quando la malattia si manifesta nel periodo estivo, quando la persona è più scoperta ed impossibilitata a mostrarsi in pubblico. «La frattura identitaria che si manifesta nel malato tra il prima e il dopo la comparsa della malattia, fa emergere alcuni aspetti della personalità inimmaginabili quando non si era malati dichiara Antonella Demma, psicologa e psicoterapeuta, docente della Scuola di psicoterapie dell'Università di Venezia quali soprattutto rabbia, impotenza, imbarazzo e frustrazione. E qui c'è bisogno non solo delle cure possibile ma di tutto il supporto psicologico nelle strutture di riferimento per questa patologia».

Nel 2014 tutti gli Stati membri dell'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) hanno riconosciuto la psoriasi come una malattia grave non trasmissibile. Molti malati nel mondo soffrono in modo inutile a causa di diagnosi errate o ritardate. Ma anche per trattamenti terapeutici inadeguati e accesso insufficiente alla terapie. E sempre l'Organizzazione Mondiale della Sanità stima che nel 2030 le malattie psoriasiche potrebbero subire nei Paesi più evoluti un drastico calo se venissero attuati tutti i programmi di screening genetico e se venissero impiegati dopo una diagnosi certa di malattia i farmaci immunoterapici di ultima generazione.

LE ASSOCIAZIONI

Mara Maccarone, presidente Adipso, l'associazione per la difesa dei malati psoriasici, parlando a Il Giornale è un fiume in piena. «Il 90 per cento dei malati colpiti da psoriasi abbandona le cure: in Italia ci sono 21 regioni con 21 servizi sanitari, le regioni più ricche pagano le cure, le altre non hanno soldi. Questa situazione a macchia di leopardo penalizza e mortifica quei malati che sono costretti, per curarsi, ad andare in altre regioni». La voce dei malati, che in Italia sono oltre 3 milioni, deve trovare ascolto. «Le istituzioni - dice Maccarone - devono sapere che noi malati di psoriasi non riceviamo risposte, ma solo silenzi. Come se non bastasse la nostra vita difficile, drammatica, che ci esclude nelle piccole cose quotidiane fino alla vita lavorativa, di relazione per arrivare a quella intima e affettiva. Il malato di psoriasi non deve curare solo la malattia, ma spesso è un depresso: perché nella nostra condizione non facile rapportarsi con il mondo che ci circonda». Per questo nascono le associazioni dei malati «che sono l'unica voce far valere in questo Paese quei diritti di cui dovremmo godere ma che di fatto ci vengono esclusi».

Sedici nazioni del mondo hanno lavorato per anni con l'OMS per far riconoscere la psoriasi come malattia sociale ed invalidante: tra questi l'Italia: «Ma da noi la situazione sembra essere sempre peggio. I malati non devono diventare persone di serie B, escluse pure dalle cure: il servizio sanitario italiano deve offrire la possibilità di curarsi in maniera continuativa».


L'auto-shiatsu: ecco come alleviare emicrania, dolori cervicali e mal di schiena

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Emicrania, dolori cervicali, mal di schiena, crampi muscolari: alcune delle più comuni patologie dell'apparato osteoarticolare e del sistema nervoso possono essere alleviate attraverso alcuni semplici esercizi fai da te. In questo video, il professor Fulvio Palombini, reumatologo, docente in Fisioterapia all’Università “Sapienza” di Roma e presidente dell'Associazione Italiana Shiatsu, illustra come, usando mani e polpastrelli per esercitare lievi pressioni ritmiche sulle zone interessate, è possibile ridurre alcuni dei fastidi più frequenti. Lo shiatsu, antica tecnica giapponese resa scientifica negli anni '60 da Tokujiro Namikoshi, è stata importata in Italia alla fine degli anni '70.

Fonte: VISTA Agenzia Televisiva Parlamentare / Alexander Jakhnagiev



Lenzuola piene di germi e funghi. Microbiologo: ecco quando cambiarle

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I rischi spiegato da un microbiologo. Il nostro corpo fa proliferare i funghi. Poi nel letto si trovano germi, acari della polvere e polline

Philip Tierno, microbiologo dell'Università di New York, ne è certo: le lenzuola del letto vanno cambiate almeno una volta alla settimana. Altrimenti il rischio è quello di trasformare il letto in un calderone pieno di funghi e batteri vari. Col rischio di ammalarsi.

Quando andiamo a letto pensiamo di essere nel luogo più confortevole della casa. E spesso è così. Eppure se non lo curiamo adeguatamente, cambiando spesso le lenzuola e le federe, rischia di diventare una vera e propria "bomba" di batteri.

Il nostro corpo, infatti, in un anno emana (in media) qualcosa come 26 litri di sudore. E visto che l'umidità aiuta i funghi a proliferare, sui nostri cuscini dopo un anno e mezzo se ne possono trovare anche 17 tipologie differenti. Non proprio il massimo dell'igiene. Senza considerare tutto il resto del corpo: chi dorme nudo, ovviamente, sporcherà di più il letto di quanto non faccia chi si affida alla camicia da notte. Attenzione: per chi indossa il pigiama il discorso è lo stesso. Anche i vestiti dovrebbero finire in lavatrice almeno una volta a settimana (uno studio confezionato da una società di materassi abbia dimostrato che i maschi sono soliti tenerli per molti più giorni rispetto alle donne).

Ai funghi che crescono nel letto bisogna aggiungere i batteri che provengono dall'epidermide, dai colpi di tosse o dagli starnuti notturni e pure le secrezioni vaginali e anali. Infine, per chi ha cani o gatti a casa non sono da sottovalutare i peli degli animali che si depositano sotto il piumone, oltre ovviamente al polline e agli acari della polvere.

Ogni quanti giorni bisognerebbe cambiare le lenzuola? Secondo Philip Tierno almeno una volta alla settimana. Solo così si evita di covare germi che possono provocare raffreddori e gola infiammata, opppure peggiorare situazioni croniche di asma e sinusite. Nel letto, infatti, i germi sono a diretto contatto con la bocca e, sebbene inconsciamente, di notte ne inaliamo moltissimi. Impossibile evitarlo.

Gli studi condotti sulla frequenza di cambio delle lenzuola non sono incoraggianti. Secondo una agenzia di assicurazioni domestiche, fa notare Focus, "i single britannici cambierebbero la biancheria del letto ogni tre mesi e la media degli inglesi addirittura solo tre volte all’anno". Non proprio il massimo della pulizia.

Se il colesterolo uccide anche quando è troppo basso

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Il colesterolo rappresenta una sostanza indispensabile nel mondo animale e nell’uomo in particolare

Il colesterolo troppo alto fa male. Si sa. Ma il colesterolo, però, può essere pericoloso anche quando è troppo basso. Sì, perché è in realtà una sostanza indispensabile per l'uomo, in particolare per le membrane di tutte le cellule. A parlare di questo problema su Dagospia è il dottor Massimo Finzi. Secondo il medico, il colesterolo è essenziale anche per il cervello, di cui è infatti un costituente, e anche per i processi immunitari.
Un'eccessiva riduzione di colesterolo può causare "alterazioni del tono dell’umore, ridotta resistenza alla fatica e allo stress in genere, alterazione della libido, diminuzione delle difese immunitarie e, secondo alcuni studi anche un aumento dell’incidenza di tumori", prosegue l'esperto. Inoltre, i casi mortalità sono dovuti sia a un eccesso di colesterolo, sia a una mancanza. A dimostrare questo fatto è un recente studio danese. Solo nei valori intermedi della curva, dunque, la mortalità si abbassa.

«Fame, obesità e sprechi le sfide dei prossimi anni»

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In gioco ci sono gli obiettivi di sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2030, secondo le Nazioni Unite

Fabrizio de' Marinis

Un appuntamento internazionale per parlare di cibo e di quanto, quello che mettiamo nel piatto, «pesa» sul nostro Pianeta. Ospiti di fama mondiale e un dibattito sul «sistema cibo» tra Guido Barilla e Carlin Petrini, di Slow Food, a Milano, durante l' Ottavo Forum Internazionale su Alimentazione e Nutrizione, organizzato da Barilla Center for Food & Nutrition (BCFN).

Di obesità e di troppo mangiare si può morire e si può uccidere un Pianeta, il nostro, ma cosa ancora più grave si condanna il futuro delle nuove generazioni. Presentati anche i nuovi dati del «Food Sustainability Index», realizzato da Fondazione BCFN e «The Economist Intelligence Unit» (EIU), dove il nostro Paese risulta al settimo posto in quanto a virtuosismi alimentari. Sul podio quest'anno vanno Francia, Giappone e Germania. Sono i tre Paesi dove il cibo è il più «buono» del mondo. Non per il semplice gusto, ma perché, secondo la media dei vari parametri analizzati, si sono distinti maggiormente tra i 34 Paesi analizzati - nel produrre, distribuire e consumare il cibo.

«Fame, obesità, spreco di cibo e risorse limitate dice Guido Barilla, presidente della Fondazione BCFN - rappresentano alcune delle sfide che da qui ai prossimi anni dovremo vincere se vogliamo raggiungere, entro il 2030, gli obiettivi di Sviluppo sostenibile promossi dalle Nazioni Unite. Considerando che tutti condividiamo e consumiamo le risorse del Pianeta, abbiamo urgentemente bisogno di cambiare gli attuali modelli di sviluppo e di sensibilizzare le coscienze di tutti. Una delle iniziative più importanti della Fondazione BCFN è dare un contributo concreto affinché ogni singola persona abbia la possibilità di fare scelte informate sul proprio stile di vita. Ecco perché, anche quest'anno, abbiamo deciso di realizzare un appuntamento dedicato a condividere evidenze, dati scientifici e best practice utili a costruire modelli alimentari rispettosi della salute delle persone e del Pianeta». Altro dato interessante emerso dal Forum secondo una ricerca realizzata da Macrogeo e Fondazione BCFN e quest'ultima con Demos & Pi - è che gli italiani sono tradizionalisti a tavola. Tre su 4 non si sentono pronti a cambiare le proprie abitudini alimentari e preferiscono mangiare italiano, mentre 1 su 2 non va mai in ristoranti etnici, né compra o cucina cibi etnici. Per un italiano su 2, però, le nostre abitudini alimentari cambieranno molto da qui a 10 anni, soprattutto a causa del cambiamento climatico (79,2%), ma anche per l'andamento dei prezzi delle materie prime (78,2%) e dell'impatto dei social media (70,4%). Ma il cambiamento non si tradurrà tanto nell'aumento del consumo di cibi etnici (lo pensa solo il 47,4%) o nel mangiare insetti (25%). Aumenterà soprattutto il consumo di alimenti bio (68.8%), di cibi funzionali (63,2%), di prodotti a chilometro zero(59,7%).

Numeri e tendenze da non sottovalutare, visto che in Germania, Francia, Italia e Spagna, a fronte di un mercato alimentare che vale complessivamente 321 miliardi, la quota cosiddetta «etnica» relativa agli alimenti per uso domestico ammonta a circa 3 miliardi. Un risultato cui hanno contribuito probabilmente sia i flussi migratori, che stanno contribuendo a cambiare in qualche misura anche le nostre abitudini alimentari, sia la costante ricerca di nuovi sapori da parte dei cuochi, dei produttori alimentari e degli stessi consumatori locali.

Aria più pulita in casa con tecnologie e natura

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Cappe di nuova generazione e micro-habitat con piante da arredamento in diversi punti

Riccardo Cervelli

A volte, l'aria che si respira in casa è più inquinata di quella della strada. Colpa di vari fattori, che si possono contrastare se si conoscono. Si va dalle colle alle vernici di scarsa qualità, dai deodoranti low cost agli incensi e alle candele. Come minimo bisognerebbe ricordarsi di arieggiare di tanto in tanto l'abitazione (ma non sempre è possibile farlo a sufficienza), ma oggi ci vengono incontro anche soluzioni all'insegna della tecnologia e di un rinnovato rapporto con la natura.

Per quanto riguarda la tecnologia, la Faber di Fabriano (Gruppo Franke), antesignana nel mondo delle cappe per cucina nel 1955, dimostra come anche il settore in cui opera può giocare un ruolo da protagonista nel contrasto più efficace, scientifico e senza compromessi con l'estetica, dell'inquinamento indoor. «Da un paio d'anni - racconta Dino Giubbilei, direttore marketing di Faber - abbiamo iniziato un'attività di riposizionamento sul mercato per essere percepiti non solo come pionieri e specialisti delle cappe da cucina, ma come una società esperta a 360 gradi del trattamento dell'aria negli ambienti indoor. Non è nostra intenzione abbandonare la focalizzazione sulla cucina - in particolare quella sulle cappe e sui piani di cottura - ma non escludiamo la possibilità di ampliare il raggio d'azione, sempre partendo dall'ambiente cucina. È uno degli obiettivi che perseguiamo anche con un team di innovazione che abbiamo creato all'interno di PoliHub, nell'incubatore del Politecnico di Milano. Per quanto riguarda le nostre categorie di prodotto tradizionali, studiamo nuove soluzioni contro l'inquinamento indoor, che, va ricordato, non include solo la qualità dell'aria ma anche il rumore. Un nostro obiettivo è offrire ai clienti soluzioni che includono sensoristica e meccanismi che si autoregolano per mantenere sano e piacevole l'ambiente della cucina, oltre ad aiutare nella preparazione dei cibi».

Giubbilei sottolinea che, per innovare, Faber cerca ispirazioni anche dalla natura. Ne è un esempio il motore di aspirazione Nautilus, che ricorda una conchiglia.

Già, la natura. Un bene cui riconosciamo un ruolo fondamentale nell'ambiente esterno, che oggi scopriamo poterlo avere anche nell'ambiente domestico. «Le piante - spiega la green designer Sonia Santella - ci aiutano a depurare l'aria negli appartamenti e negli uffici. Le piante catturano attraverso le foglie le sostanze inquinanti come le polveri sottili, la formaldeide o i solventi, le metabolizzano e le trattengono». Tra le piante più consigliate, filodendro, spatifillo, dracaena marginata, anturio, monstera e felci. «Se potete - conclude - non lasciate le piante isolate, ma create degli habitat con più esemplari. Stando insieme, le piante si rafforzano e rinvigoriscono». Un buon modo per unire l'utile della depurazione dell'aria, con il dilettevole di una vista piacevole.

Il gelato si può gustare tutto l'anno ancora meglio se ha gli «Omega 3»

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Il giusto connubio sapori-salute. E la circolazione ringrazia

Stefania Lolla

Da oggi il gelato non è più solamente una golosa merenda per grandi e piccini, ma anche un alimento che fa bene alla salute. A una condizione: che contenga Omega 3, acidi grassi essenziali indispensabili al nostro organismo perché migliorano la circolazione sanguigna proteggendoci da trombi, infarti, ischemie, arteriosclerosi, e diminuiscono la possibilità di insorgenza di alcuni tumori, come quelli di prostata e mammella.

L'idea del «gelato funzionale» (si chiamano così gli alimenti ai quali vengono aggiunte sostanze benefiche per favorire la salute o ridurre il rischio di malattie) è di Pino Milani, ex manager del mondo della finanza, e di Alberto Gramaglia, direttore di Radioterapia dell'Ospedale di Monza: insieme al laboratorio chimico Meta Research di Lissone (MB) hanno messo a punto il procedimento per aggiungere al gelato gli Omega 3, con un brevetto che ha ottenuto la certificazione europea.

Si tratta di un risultato importante, perché queste preziose sostanze non sono prodotte naturalmente dall'organismo né facili da assumere con la dieta. Si trovano, infatti, in minime quantità solo in determinati alimenti: sgombri, merluzzo dell'Europa del Nord e salmone, alghe del Sud America, alcuni vegetali e frutta secca. E anche pensando di volerle assumere in forma pura, il problema è che hanno un cattivo odore e un pessimo sapore.

Inoltre, gli Omega 3 sono molto delicati e si alterano facilmente (temono umidità, temperatura elevata e luce), perdendo le loro caratteristiche benefiche fino a divenire nocivi. Senza contare il fatto che vengono assorbiti dall'organismo umano in misura molto limitata (40%).

La soluzione di veicolare gli Omega 3 con un processo tecnologico di micro-incapsulamento in un alimento buono e gradevole come il gelato ha permesso di mantenere tutti i valori e le proprietà di queste preziose sostanze per oltre 24 mesi. Il gelato prodotto industrialmente, infatti, viene normalmente conservato a -18 gradi, che è esattamente la temperatura di cui hanno bisogno gli Omega 3 per restare integri. Inoltre in questo modo si è mantenuta intatta la gradevolezza del gusto, con una maggiore capacità di assorbimento del nostro organismo di questi acidi grassi essenziali.

Il gelato perde così la sua connotazione tipicamente estiva per diventare un alimento funzionale e fruibile tutto l'anno. Non solo: anche chi è in sovrappeso, è affetto da diabete o da un tumore potrà godersi un gelato senza sensi di colpa, anzi, realizzando il giusto connubio tra gusto e salute.

La scorsa estate il prodotto è stato venduto, con un progetto pilota, in Sardegna, e l'esito più che soddisfacente. Al momento è disponibile solo su ordinazione, presso la stessa Meta Research, ma presto potrebbe essere avviato alla commercializzazione in modo diffuso e arrivare anche nei maggior supermercati italiani.

La nostra bocca

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Stanco di nascondere il tuo sorriso? Il digitale entra nel rapporto tra paziente e dentista. Termini come digital smile design e mock up virtuali significano un nuovo modo di comunicare tra il paziente e il professionista. Sfruttando la fotografia e le impronte digitali (non quelle delle dita) oggi è possibile mostrare al paziente la sua situazione iniziale e come potrebbe migliorare il sorriso con dei rendering molto realistici sul computer. Come l'architetto fa vedere l'appartamento finito, noi possiamo mostrare al paziente il suo sorriso dopo le cure. Grazie a mascherine in silicone e a resine dalla resa estetica molto performante possiamo applicare il nuovo sorriso in prova al paziente. In questo modo, potrà guardarsi allo specchio e perfino andare a casa e farsi vedere dai propri familiari. Il rendering estetico dura pochi giorni, giusto il tempo per poter apprezzare e visualizzare come si potrà migliorare.

Non pensate a delle scorciatoie: la diagnosi parodontale (gengive, legamento parodontale e osso), cariologica (carie) e ortognatodontica (malocclusioni, mal posizioni dentarie) sono step imprescindibili a qualsiasi trattamento odontoiatrico. Applicare un dispositivo protesico senza una corretta diagnosi è un errore gravissimo che porterebbe al fallimento precoce della riabilitazione. Grazie a questa innovativa tecnologia non ci sarà più un sorriso nuovo a scatola chiusa. E come disse Charlie Chaplin: «Un giorno senza un sorriso è un giorno perso».

www.studiomottarossi.it


La natura come amica

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La temperatura si è abbassata e sono comparsi i primi malanni di stagione. La gola è la prima interessata ai virus e apre le porte a sindromi parainfluenzali. Un rimedio sempre valido è l'assunzione di tisane a base di timo, eucalipto ed echinacea. Se il corpo è depurato sopporta meglio i malanni stagionali; infatti, dobbiamo anzitutto depurare il fegato e i reni, per permettere al nostro organismo di affrontare al meglio la stagione invernale. Una tisana depurativa di valido aiuto è composta da 60 gr. di crisantemo americano e 40 gr. di pilosella sommità in dose pari a n. 2 tazze al dì per 20/30 giorni. La natura offre validi rimedi per alleviare le infiammazioni, provocate anche da assunzione eccessiva di cibo, che in occasione delle festività sono presenti in molti di noi. Tra i rimedi troviamo due frutti tropicali, quali l'ananas contenente bromelina e la papaya. La papaya è una pianta appartenente alla famiglia delle Caricacee.

Tra i molteplici componenti benefici, la papaya contiene un prezioso enzima, la papaina, che si comporta allo stesso modo di un succo gastrico e ha quindi un forte potere digestivo. Per questo motivo è un frutto che si può tranquillamente consumare al termine di un abbondante pranzo. La papaya è un frutto tropicale ricco di proprietà già di per sé; la fermentazione però è in grado di aumentarne gli effetti benefici, ecco perché negli ultimi anni si sono moltiplicati i prodotti a base di questo rimedio, utile in diverse situazioni. Il procedimento con cui si ottiene la papaya fermentata è semplice: il frutto fresco (raccolto in uno specifico momento della sua maturazione) èprima sottoposto a fermentazione microbica, che può durare anche parecchi mesi e che aumenta il valore nutrizionale e il contenuto di enzimi del frutto fresco, e poi ridotto in polvere.

La papaya essiccata e fermentata è molto apprezzata soprattutto per le sue doti antiossidanti e digestive che la rendono un integratore consigliato a chi segue una dieta e uno stile di vita anti-age, ma anche a chi soffre di pesantezza gastrica o intestinale. La papaya fermentata si trova sotto forma di estratto secco, liquido (a volte unita ad altri succhi dal potere antiossidante), in compresse, tavolette o in bustine da sciogliere in acqua. Ottimi rimedi sempre validi e di facile utilizzo sono le tisane digestive che abbinano le proprietà benefiche delle piante come, ad esempio, finocchio, cunino, anice e camomilla; zenzero e sambuco; zenzero e limone.

*Farmacista esperta

in Fitoterapia

Resilienza e punti di forza personali

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La vita è talvolta caratterizzata da eventi molto difficili, quali, ad esempio, una malattia grave, un lutto, un attentato, ma anche da eventi più «semplici» e quotidiani, come perdere il lavoro, avere problemi economici o difficoltà nella sfera della vita affettiva. Sostenere che una persona è «resiliente», non significa dire che non ci siano sentimenti di malessere o dolore emotivo dinanzi a una difficoltà, ma che sono presenti spiccate capacità di capire, imparare e sviluppare comportamenti o modi di pensare funzionali a gestire le difficoltà. Un individuo può essere più vulnerabile alle difficoltà, ma può essere resiliente se è cresciuto in un ambiente propenso a un atteggiamento costruttivo.

Le persone con un buon livello di resilienza, dunque, fronteggiano costruttivamente le contrarietà e riescono a raggiungere mete importanti. L'esposizione alle avversità sembra essere rafforzativa, queste persone sono, infatti, ottimiste, flessibili e creative; sanno lavorare in gruppo e fanno facilmente tesoro delle proprie e delle altrui esperienze.

Ma cosa, quindi, determina la nostra resilienza? A nutrire la nostra resilienza, contribuiscono diverse questioni, prima tra tutti la presenza, all'interno come all'esterno della famiglia dell'individuo in questione, di relazioni con persone premurose e solidali. Questo tipo di relazioni genera fiducia, e fornisce incoraggiamento ad affrontare le difficoltà.

Anche la capacità di sostituire emozioni negative con vissuti fiduciosi e positivi, pare essere un aspetto fondamentale, nonché la capacità di costruire relazioni eterogenee che sostengano l'individuo nelle difficoltà.

Le strade che possono portare le persone ad accrescere il proprio livello di resilienza sono, quindi, numerose. Migliorare il proprio livello di resilienza significa focalizzare l'attenzione sulle esperienze del passato, cercando di individuare le risorse che rappresentano i punti di forza personali. La resilienza non è, quindi, una caratteristica presente o assente in un individuo, ma può essere altresì incrementata da chiunque in qualunque circostanza.

È in questo senso la capacità di riorganizzare la propria vita in modo da riuscire a fronteggiare le difficoltà che incarna l'essenza della resilienza.

La persona resiliente, non si lascia «deformare» dallo stress e dalle sofferenze, ma affronta il disagio superandolo e «ritornando» allo stato iniziale con un bagaglio di esperienze più ricco.

*Psicologa

Psicoterapeuta

Una macchina chiamata corpo

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È arrivato l'inverno, e con lui neve e strade gelate. La gamma degli infortuni è estremamente varia e va dal semplice trauma contusivo, che guarisce da solo, con qualche giorno di riposo, alla distorsione articolare, di ginocchio e spalla in particolare, per finire alle fratture che generalmente richiedono un trattamento chirurgico seguito da un periodo di riabilitazione di diversi mesi. Ma per gli amanti dello sci, freddo significa piste innevate ed è indispensabile prepararsi al meglio per evitare infortuni in alta quota. Le ginocchia sono la parte del corpo più esposta al rischio di lesione: quasi l'80% dei traumi distorsivi conseguenti alla pratica degli sport invernali riguardano proprio queste articolazioni. Fondamentale, quindi, è la preparazione fisica; la sempre valida «ginnastica presciistica» è importante perché consente di potenziare la muscolatura, soprattutto delle gambe e del tronco, e quindi di rendere il fisico più preparato a resistere agli eventuali traumi sulla neve. Il consiglio è di concentrarsi soprattutto sugli esercizi dedicati alla core stability, ossia all'allenamento dei muscoli centrali del corpo per migliorare la coordinazione e l'equilibrio, e a quelli di coordinazione propriocettiva, con l'uso di tavolette, di tappeti elastici o dei materassini.

Infatti, l'allenamento fisico passa anche da quello mentale: per ottenere prestazioni sportive soddisfacenti, senza rischiare di far diventare una giornata di sci il de profundis per il nostro corpo, bisogna saper «allenare» anche il cervello a contrastare i repentini cambi di posizione che il corpo può subire conseguentemente a stimoli accidentali esterni (provocati ad esempio da una perdita di equilibrio).

Il cervello deve saper indicare al corpo, in tempi brevissimi, quali siano i movimenti da adottare per ritornare alla posizione corretta. E, quindi, ecco gli esercizi propriocettivi, quelli che, realizzati in palestra o all'aria aperta qualche settimana prima dell'avvio della stagione invernale. Ci consentono di percepire e riconoscere la posizione del nostro corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei nostri muscoli. La regola numero uno resta comunque quella di tenere in considerazione il proprio «punto di partenza», altrimenti si rischia di apportare più danni che benefici: chi, durante l'anno, svolge un'attività prevalentemente sedentaria deve fin da subito dedicare più tempo al recupero del gap fisico, per poi poter affrontare senza problemi tante ore sugli sci o sulla tavola da snowboard.

*Chirurgo ortopedico

Trombosi, prevenire si può Gli «over 50» i più a rischio

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L'impegno di Alt Onlus per informare la popolazione I soggetti più esposti e gli accorgimenti da prendere

Viviana Persiani

Anche se il 13 ottobre, Giornata Mondiale della Trombosi, è una data ormai lontana, vale la pena riprendere il tema di questa patologia pericolosa, soprattutto perché la maggior parte delle persone, e non solo in Italia, non ne conoscono il significato e nemmeno sanno come affrontarla. Un affresco drammatico dipinto da un'indagine condotta da Alt Onlus, l'Associazione per la Lotta alla trombosi e alle malattie cardiovascolari che sta lavorando, da trent'anni, per fare cultura sulla malattia. Ma cos'è, in effetti, la trombosi?

Il 13 ottobre del 1821 nacque Rudolf Virchovl, medico tedesco e pioniere del concetto di «trombosi», definito come un coagulo di sangue che si forma in un'arteria o in una vena, causando infarto del miocardio o ictus cerebrale, embolia polmonare o trombosi delle arterie o delle vene, quella che comunemente si chiama flebite.

Oggi, una persona su quattro nel mondo perderà la propria vita proprio a causa di un trombo, o rimarrà pesantemente invalida. La dottoressa Lidia Rota Vender, presidente di Alt, è promotrice di un'attenta attività di sensibilizzazione nei confronti di questo «nemico che dovremmo temere più di ogni altro: soprattutto perché possiamo batterla. Le malattie da trombosi sono l'incontro più probabile per tutti coloro che hanno 50 anni o più, ma possono essere evitate almeno in un caso su tre, perché la prevenzione delle malattie funziona davvero e dipende molto da ciascuno di noi».

L'Alt Onlus, infatti, lavora per diffondere conoscenza e consapevolezza, sensibilizzando gli over 50, sicuramente più soggetti a trombosi e sollecitandoli alla prevenzione. Come si può riconoscere la trombosi? Dolore o gonfiore di una gamba, della caviglia o della coscia, rossore e calore della parte colpita. Il trombo, inoltre, può liberare emboli che, dalla vena arrivano al polmone: allora il respiro diventa corto, il torace comincia a dolere e il ritmo del cuore accelera. Siamo di fronte all'embolia polmonare.

Attenzione però, perché spesso, quello che viene chiamato tromboembolismo venoso (secondo le stime provoca quasi 1.500 decessi al giorno) viene sotto-diagnostico in quanto asintomatico. Quali sono i fattori di rischio? E chi è facilmente soggetto a trombosi? In genere, chi ha subito un intervento chirurgico ed è rimasto immobilizzato a lungo, magari in un letto d'ospedale, come chi porta un'ingessatura, ma anche le donne in gravidanza e nel periodo dopo il parto.

Un'attenzione particolare, la dovrebbero avere coloro che assumono farmaci a base di estrogeni o chemioterapici. Anche chi soffre di una malattia infiammatoria acuta o cronica, come la cardiopatia, disturbi polmonari, o altre patologie infiammatorie intestinali è soggetto a trombosi, senza dimenticare che il fumo può aumentare il rischio di ammalarsi del 24%. Ma come possiamo contrastare questo acerrimo nemico, spesso silenzioso?

Anzitutto, evitando uno stile di vita sedentario; coloro che sono costretti a stare seduti per lunghi periodi dovrebbero alzarsi e camminare ogni due o tre ore per muovere le gambe, fare esercizi di contrazione e rilassamento muscolare e indossare anche un abbigliamento comodo. Una volta, però, diagnosticata la patologia, evidenziabile da un'ecografia, dalla venografia, ma anche dalla risonanza magnetica (RM) e la tomografia computerizzata (TC), senza trascurare il test del D-dimero, si può intervenire con dei farmaci anticoagulanti, utili per alleviare i disturbi. Le calze elastiche a compressione rappresentano un ausilio per lenire il dolore e agire sul gonfiore delle gambe, calmandolo. Scienza e ricerca sono venute in aiuto dei soggetti a rischio, mettendo a punto terapie all'avanguardia: ad esempio, la trombolisi catetere-diretta oppure farmaco-meccanica.

La macchina «scova tumori» ultra veloce che taglia i costi

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Lo scienziato Crosetto e il cardiochirurgo pavese Vigna lottano da anni per la trasparenza nella scienza

Pierluigi Bonora

Si chiama 3D-CBS ed è una tecnologia innovativa, ovviamente brevettata a livello internazionale, che ha dato origine a un'apparecchiatura finalizzata alla diagnosi precocissima di patologie tumorali e degenerative. In pratica, si tratta di una Pet/Tac avanzata e tridimensionale (da qui il nome 3D-CBS) che, oltre alla possibilità di scoprire per tempo quelle che potrebbero diventare gravi patologie, trattiene il paziente per l'esame solo 4 minuti rispetto ai 30/90 minuti tradizionali.

Oltre alla rapidità di esecuzione, la nuova apparecchiatura fa risparmiare denaro al Servizio sanitario (l'esame costa tra i 300 e i 400 dollari, contro i 2.000/4.000 della Pet/Tac attuale) e, soprattutto, sottopone il paziente a una dose di radiazioni infinitesimale: 1-1,6 mrem da 1100-1600 attuali.

«Per non parlare dell'efficienza - spiega Vincenzo Vigna, cardiochirurgo pavese, che con lo scienziato inventore italo-americano Dario Crosetto collabora da lustri -: le Pet/Tac attuali catturano un fotone ogni 10.000 e permettono di visualizzare solo tumori già formati e in stadio avanzato; la nostra apparecchiatura, catturando un fotone ogni 25, è invece capace di misurare il minimo metabolismo anomalo, fornendo in questo modo al medico informazioni quantitative precise allo scopo di consentire una diagnosi precocissima. Nel caso della Pet/Tac, invece, il medico dovrebbe interpretare il metabolismo anomalo dall'annerimento di uno spot sul monitor, cioè un'assurdità».

Con il 3D-CBS si ottengono, di fatto, tutte le informazioni essenziali che si acquisiscono dal conteggio di tutti i segnali catturabili dai marcatori tumorali. «C'è un abbattimento dei costi sui capitoli relativi alla sanità di oltre il 50% - ricorda Vigna - mentre si arriva a uno screening annuale a favore di un maggior numero di persone».

L'accordo tra Vigna e Crosetto prevede che il primo si occupi di tutti gli aspetti medici e della ricerca di partner finanziatori dell'iniziativa (esistono già prototipi/dimostratori dell'apparecchiatura), mentre l'impegno dello scienziato italo-americano, originario di Monasterolo di Savigliano (Cuneo), riguarda gli aspetti tecnico scientifici del progetto, incluse le pubblicazioni scientifiche e divulgative. «Salvare milioni di persone con un considerevole risparmio grazie alla diagnosi precocissima si può - sottolinea il ricercatore Crosetto -: il 3D-CBS cattura, infatti, il massimo numero di segnali validi dai marcatori tumorali al minimo costo per segnale valido intercettato rispetto agli approcci tecnologici utilizzati nelle altre apparecchiature. Il 3D-CBS crea il primo vero cambiamento paradigmatico nella diagnosi biomedica perché offre, contemporaneamente, i tre benefici: sensibilità ultra-elevata, solo l'1% della dose di radiazione per il paziente, spesa per esame abbattuta».

Il dottor Vigna, soprattutto per rappresentare le richieste documentate di tanti pazienti e familiari, è già in contatto con la professoressa Fabiola Gianotti, direttrice del Cern, il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle che ha sede a Ginevra, per un'ulteriore valutazione dell'apparecchiatura. «Da parte nostra - precisa Vigna - siamo disposti a regalare la tecnologia a tutti gli istituti, fondazioni, consorzi pubblici che hanno il compito di essere al servizio dei cittadini». Quello che occorre è un finanziamento di 20-50 milioni per costruire una serie di prototipi e avviare la produzione di serie dell'apparecchiatura con l'esclusiva mondiale. La macchina diagnostica ideata da Crosetto ha trovato riscontri positivi nelle affermazioni di luminari, come Aris Zonta, autore del primo autotrapianto di fegato al mondo eseguito al Policlinico San Matteo di Pavia («...questo progetto dev'essere finanziato, segnerà una svolta epocale nella diagnosi precoce del cancro...»). In tanti sostengono che Crosetto sia l'Ignaz Semmelweiss del nostro tempo, il medico tedesco-ungherese che nel 1845 fu tra i pionieri dell'ampio uso delle procedure antisettiche prima del parto. Semmelweiss fu ostracizzato e infine rinchiuso in manicomio per aver difeso le sue tesi scientifiche, confermate da Pasteur successivamente. Analogamente, Crosetto ha visto la sua invenzione «boicottata e soppressa - afferma - a danno dei malati e dei contribuenti».

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